53/SCRITTI

Il primo per i vestiti dal taglio occidentale, assomigli a Edward Norton, magari ti fanno entrare gratis al cinema.

Poi per quei tre giorni, lunedì papà in galera, martedì fratello morto, mercoledì salta in aria la bottega. La mamma ti dice “scappa”.

Siamo a cinque.

Saluti i parenti, gli amici, i clienti, la tipa con cui uscivi. E anche le altre.

Dieci.

Per le esplosioni e la paura. E la paura delle esplosioni. “Ma stasera non c’è Omar?”. “Eh…”. Per i fiori che non porti neanche più.

Quindici.

ISIS, ESL, YPG, RAS, JAN.

Venti, anche se l’elenco di chi litiga per spartirsi il tuo Paese è ancora lungo.

USA, Francia, Russia, Arabia Saudita, Qatar.

Venticinque.

Per la Turchia e quel salone, tanti tagli, pochi soldi. Per la barca.

Trenta, come i tuoi anni.

Le onde, il freddo, le spinte, i bagagli lanciati sul molo con disprezzo. Welcome to Greece.

Trentacinque.

Per l’autobus che ti porta su su su per un sacco di tornanti, il cancello, la puzza, ti mettono in una gabbia, non capisci una parola.

Quaranta.

Per l’attesa, alzi la testa ogni volta che si apre una porta, i poliziotti non ti guardano in faccia, dall’ufficio esce il suono di una partita di basket. Per il pony express che gli porta il caffè freddo.

Quarantacinque.

Per la fila che sembra di marmo da quanto è immobile, gli uomini e le donne che ti guardano da fuori, nessuno parla, pile di coperte grigie. Per la suoneria di un cellulare che non accenna a smettere.

Cinquanta.

Cinquantuno, si muove qualcosa.

Cinquantadue, è il tuo turno.

Cinquantatré, il numero che ti scrivono sulla mano con inchiostro indelebile.

53 sei tu, per loro.

Ne ho fatti milioni con le forbici, ma cinquantatré sono i tagli riservati all’ultimo anno della mia vita.

Sono Y., sono un hair stylist e voglio andare in Spagna per fare il mio lavoro.

E per le ragazze.

Andrea Luporini

DUE/SCRITTI

“My friend, Maifrend, Mafrend, Mafren”.

E una canzone sulle note di Fra Martino, in inglese.

Questo conoscono di noi i bambini del campo.

Questo e, forse, il fatto che alla sera non rimaniamo con loro.

Non credo si domandino dove andiamo, probabilmente neanche gli interessa.

Le case in paese le vedono, sono le stesse dove sono nati, non sono una novità.

Credo immaginino che quelle case siano le nostre ma credo anche non ce ne facciano una colpa.

Sono molto diversi fra loro, i bambini del campo.

Piccoli Lord coi capelli granitici di brillantina e magliette bianche insieme a creature selvatiche che ridono fino a strozzarsi per uno stupido gioco di prestigio.

Trovano sempre qualcosa di laterale nel mondo che li circonda, qualcosa spostato un po’ più in là rispetto alla realtà in cui si trovano. Ne vedo uno proprio adesso affrontare l’infinita salita (il campo è su diversi livelli, con una pendenza tipo Alpe d’Huez), scartare di lato per evitare un rivolo d’acqua di scarico e saltare sul sottilissimo gradino che divide il passaggio dalla zona dove si trovano le tende degli afghani. Le due bottiglie d’acqua che porta sottobraccio sembrano propulsori spaziali, le ciabatte troppo grandi volano sul cemento, i venti centimetri fra la recinzione e la sedia su cui è seduto uno dei nostri diventano uno stargate in cui passare ad ogni costo per entrare in una dimensione parallela. E infatti, con una giravolta degna di Zidane, eccolo atterrare con un balzo dall’altra parte, una frazione di secondo per piantare saldamente i piedi a terra e ricominciare a salire, verso casa.

Poco dopo arriva un bambino con gli occhiali. E’ molto serio, fa avanti e indietro un po’ di volte intorno alla nostra postazione, come se stesse cercando qualcuno. Nelle due mani porta un pezzo di legno e un rettangolo di cartone: lo guardo e cerco di capire a cosa gli possano servire, fino a convincermi che siano una spada e uno scudo e il suo fare da cavaliere errante sia volto alla ricerca di un rivale da sfidare a singolar tenzone. Allora prendo una bottiglia d’acqua (l’oggetto che più somigliasse a una spada nei dintorni) e mi paro davanti a lui, in posizione da schermidore e con l’aria di sfida. Mi guarda qualche secondo, perplesso, posa a terra le armi e prende la bottiglia. Ne beve metà, ringrazia e se ne va.

Capisco, rimanendoci un po’ male, che il pezzo di legno e il rettangolo di cartone fossero nient’altro che un pezzo di legno e un rettangolo di cartone e che fossi io l’unico in una dimensione parallela in quel momento.

Credo sia una costante delle loro giornate passare dal gioco alla realtà mille e mille volte.

Uno di loro ci mostra l’oggetto a cui tiene di più, una PlayStation 2 conservata con cura in un sacchetto di plastica della spesa.

“Wow – gli dico- bella!”

“Sì, ma non ho un televisore dove attaccarla, qui…”

Ecco, una Playstation senza televisore è un buon esempio della condizione di questi bambini che, per quanto possano essere piccoli, hanno ben chiara la sospensione rappresentata dall’hotspot di Samos: sanno benissimo dove si trovano e chiedono ogni sera “quando ce ne possiamo andare?”.

Non chiedono di tornare a casa, ma basterebbe un luogo dove poter collegare un cavo ad uno schermo e entrare in una realtà parallela scelta da loro, da cui uscire schiacciando un bottone con una lucina verde.

 

Andrea Luporini

Day 7_sette giorni_report 1

Com’è andata la giornata?” chiede Maggia, sancendo così l’inizio delle riunioni che, da sette giorni a questa parte, accompagnano le cene a tarda ora. Riunioni necessarie: è l’unico momento in cui riusciamo a sederci intorno a un tavolo tutti insieme e, con calma, a ragionare.

Inizia Luporini, entusiasta della sua giornata: “Bene, io e Ahmed abbiamo girato il suo video. Dovevamo farlo lunedì, ma ho preferito anticiparlo a oggi: era già tutto pronto, lui sapeva già cosa voleva fare. Dongilli ha fatto qualche fotografia per documentare il tutto. Lui è stato lineare”.

Di cosa parla?” chiede Maggia.

Parla di lui, di quel che faceva prima di arrivare qui. A diciassette anni è diventato maestro di karate, e a casa sua questo faceva, il karate. Qui non può neanche più entrare in palestra, prima tutti gli dicevano che era bravo. Quando abbiamo parlato, il primo giorno, è la prima cosa che mi ha detto. Sono un maestro di karate. Così, è nata la faccenda del video. Niente fotografie, lui voleva fare un video. Credo gli piaccia l’idea di potersi fare capire, come se ritenesse che un’immagine non basti a raccontare quel che è, o forse il karate, o forse tutte e due le cose. Che magari si equivalgono.”

Tutti ascoltano. Dongilli ci mostra qualche foto scattata sul “set” – un giardinetto sotto l’hotspot, a pochi passi dal centro di Vathi.

Riesci domani a darmi una mano col montaggio?” chiede Luporini, rivolto a Ferrero. Lui annuisce.

Maggia si rivolge quindi ad Andraos, per essere sicuro che abbia capito. Andraos parla italiano, anche se è libanese, ma a volte qualcuno traduce in inglese per lui che, d’altro canto, traduce per noi tutti i giorni, dall’arabo. Insomma, alla fine ci si capisce, magari non tutto, magari non sempre, ma l’essenziale sì.

Andraos racconta in inglese, ma per semplificare traduco in italiano:

Noi oggi eravamo in dieci. Due siriani, un camerunense, due gabonesi, un egiziano, un algerino, un marocchino e un iraniano. Abbiamo lavorato al porto e poi ci siamo spostati a Samos town. Avevo sei macchine fotografiche, se le sono divise. Hanno lavorato sul concetto di luci e ombre, imparare a usarle entrambe. Lavorando, mi sono reso conto del fatto che luci e ombre per loro sono davvero una metafora. Ho già le foto, ma preferisco aspettare lunedì, discutere con loro i risultati, fare un po’ di editing, prima di pubblicarle.”

Lunedì le pubblico.

A fine giornata” prosegue Andraos “mi hanno chiesto di andare a fotografare il campo. Vorrebbero portarsi dietro le macchine fotografiche, e fare fotografie. Ma qualche giorno fa, quando Hussein ha provato a farlo, mi raccontava di aver avuto problemi. Loro possono fotografare all’interno del campo, ok, ma nessuno ha una macchina fotografica. Si spaventano, quando vedono qualcuno che fa fotografie. Forse ancora di più quando è uno che vive all’interno dell’hotspot”.

E se fotografassero col telefono?” propone Luporini. Con lui si era già parlato di questo argomento, che ovviamente sta particolarmente a cuore a tutti i migranti. È la prima cosa che ci hanno chiesto, se avremmo pubblicato le loro foto del campo. E noi, ancora oggi, non lo sappiamo: che tipo di immagini saranno? Occorre cautela.

Sì, è quello che avevo pensato anche io”. Andraos si fa pensieroso. Anche lui, da giorni, vorrebbe fotografare dentro il campo. Il campo di Samos è governativo, nessun libero accesso. I permessi arriveranno, mi dico; mentre lo penso, Maggia ci aggiorna proprio riguardo a questo.

Oggi abbiamo mandato la mail alla direttrice dell’hotspot. Dopo l’incontro ufficiale di ieri, siamo rimasti d’accordo che le avremmo riassunto tutto per iscritto. Se le cose prendono la piega giusta, da lunedì dovremmo avere i permessi che ci servono. E una postazione fissa all’interno del campo, per portare avanti il progetto di cui vi ho parlato.”

Il progetto di cui parla Maggia ha a che fare con gli oggetti. I loro oggetti. L’idea è quella di chiedere ai migranti di portare un oggetto, un oggetto che valga qualcosa, che ricordi qualcosa, che racconti. E lasciarcelo fotografare. Stesso fondo per tutti. Una sorta di archivio, una serie di immagini che raccolga qualcosa che abbia a che fare con le loro storie, senza ritrarne i volti. La memoria del campo.

Aspettiamo lunedì, vediamo cosa risponde” si introduce Ferrero.

Dongilli?” prosegue, sempre Maggia. Giulia Dongilli interrompe la discussione che stava avendo con me, riguardo alla pubblicazione di alcune fotografie scattate nel pomeriggio, durante le “attività delle donne”. Sono senza velo, dobbiamo selezionare quelle in cui non si vedono i volti.

Io oggi ho proseguito il workshop con la coppia di ragazzi afgani” risponde.

La coppia di sposi che ho conosciuto anche io durante le presentazioni dei laboratori?” chiede Maggia. Dongilli annuisce.

Lui è duro, difficile. Fa un sacco di domande e si incaponisce su tutto. Ma i lavori sono belli. Oggi mi hanno portato i loro ritratti – cioè, i loro ritratti per allegoria, non i loro volti. E si è discusso sulle immagini, quelle che non dovremmo vedere, come saperle leggere. Lui parla tanto, lei molto meno” – “Lei è bellissima”, dico io, mi scappa, ma è vero. Ha il viso rotondo e pieno, occhi vispi e trasmette una calma intelligente.

Sì, è bella” dice Dongilli “e anche se è timida, quando siamo soli io lei e il marito, parla di più. Ha fatto dei bei lavori”.

Maggia ascolta e interviene, ogni tanto, per chiedere qualcosa, più spesso per indirizzare i fotografi, tirare le fila, mettere qualche puntino sulle i. Con delicatezza: sono tutti stanchi, emotivamente colpiti, coinvolti, per quanto bisognerebbe cercare di no.

Nel pomeriggio poi, Corica ed io, abbiamo partecipato alle attività per sole donne”. Annuisco con vigore, ho appena visto le foto. “Il prossimo sabato le terrò io, queste attività, ho chiesto a Majida, pensavo mi dicesse di no, invece era contenta. Ora devo pensare a come gestire quelle ore”. Leggo, nel tono di voce di Dongilli, un coraggio che le viene da chissà dove. È pacato, ma deciso.

Maggia scorre le pagine del blog sul telefono, intanto ascolta. Io mi chiedo come stia davvero andando: ci siamo dentro, niente distanze, nessuna reale capacità di giudizio.

C’è un momento di silenzio, e Corica ne approfitta per prendere la parola: “Io oggi ho incontrato i minori non accompagnati. Sono tantissimi. Sembrano più grandi, non so”. Si ferma a pensare.

Sarà difficile gestirli. Avrò degli spazi autonomi. Sto meditando su come impiegarli. Niente presente, pensavo di concentrarmi sul passato – la memoria – e il futuro”.

Corica lavora coi minori. In questi sette giorni ha parlato meno degli altri e mi ha dato poco materiale da mettere online: è riflessiva e conosce il suo lavoro, si prende i suoi tempi. I bambini richiedono consapevolezza, rispetto al proprio progetto. Tempo. E noi non servono immagini da prima pagina, ma immagini meditate.

La conversazione prosegue, Ferrero ha un’intervista da editare, senza sottotitoli, si decide.

Poco dopo, a cena ormai conclusa, veniamo a sapere di aver ottenuto i permessi per attrezzare una postazione fissa all’interno del campo. Nessuno, prima di noi, era riuscito a entrare stabilmente dentro un hotspot governativo. È una grande responsabilità.

Sono trascorsi sette giorni, dall’inizio di questo progetto. Sette come siamo sette noi questa sera, seduti attorno a un tavolo a Ireon, sull’isola di Samos, con le luci della costa turca poco distanti.

Teresa Serra

Uno/scritti

M. viene dall’Iran. Non mi dice l’età ma avrà vent’anni.

Studia Informatica e Programmazione, “non è così straordinario, in Iran è molto popolare, lo fanno tutti”, mi dice.

Tipo Scienze della Comunicazione da noi in Italia, penso, e mi sento un po’ scemo per essermi stupito dei suoi studi, oltre a continuare a sentirmi scemo per i miei.

M. è scappato per motivi politici, come tanti qui, ma la sua storia ha un gusto un po’ rétro che mi porta alla mente camicie kaki, cappelli Fedora e nazisti sconfitti a colpi di frusta.

Solo che Indiana Jones con l’Iran non c’entra nulla e mi rimetto ad ascoltare la sua storia. “Mio nonno era un dignitario dello Scià Mohammed Reza Pahlavi, mi raccontava dell’Imperatrice Farah, delle auto di lusso e di Khomeini. Dopo la rivoluzione sono iniziate le persecuzioni per la mia famiglia”.

Non ha piacere di scendere nei particolari ed io non insisto, ma mi dice che la situazione in Iran si era fatta troppo pericolosa e che sono stati costretti a scappare per il rischio di venire uccisi.

– “Sono partito con la mia famiglia”

– “Ah, e sono qui a Samos?”

– “No”

Anche qui non vado oltre con le domande.

M. è un esempio perfetto di un aspetto ricorrente che mi ha molto colpito fra le persone con cui ho parlato: la calma.

Gli studi persi, la casa abbandonata, solo, in attesa dell’appello che sancirà la sua espulsione dall’Europa e la calma, consapevole e indefinibile.

E’ qualcosa che non riesco a capire fino in fondo, ci sto provando da giorni ma sarà probabilmente impossibile. Non sembra esserci rassegnazione ma nemmeno speranza, non è passiva accettazione ma senza la voglia di urlare in faccia a nessuno. Però non è una calma vuota, non c’è una posizione mediana che permette a queste persone di rimanere in equilibrio, dentro di loro c’è ogni sentimento, sovrapposto l’uno all’altro, in ogni momento.

Mi viene in mente un’interpretazione del paradosso di Schrodinger, con il gatto allo stesso tempo sia vivo che morto perché entrambe condizioni realizzate in diversi stati dell’Universo. Ecco, M. per me è questo, un Universo in cui lui, nello stesso momento, è immobile per la disperazione e tira fuori tutta la sua rabbia, sa che lo deporteranno in Iran ma pensa a riprendere gli studi in Europa, è felice della sua vita ma sa di averla perduta. Come sia possibile non posso saperlo, forse perché M. ha piena consapevolezza di aver preso in mano un destino totalmente scelto da lui e allo stesso tempo di non aver alcuna possibilità di indirizzarlo verso alcuna direzione. Vive nell’indeterminatezza per poter rimanere quello che è.

A un certo punto mi viene da pensare di essere davvero dentro a una delle condizioni possibili dell’Universo di M., di essere una coincidenza capitata a Samos solo per completare in maniera armonica una piccolissima e forse ininfluente sezione della sua vita. Iniziamo a parlare e a progettare un lavoro con cui esprimere le sue necessità espressive. “Quali sono i tuoi problemi più grossi? Cosa ti piace dell’isola? Su cosa vorresti concentrarti per parlare di te?”. E lui risponde “Vorrei fotografare fiori. Fiori e piante, soprattutto gli alberi mi piacciono molto”. Fiori, questo è il soggetto che ha trovato qui a Samos per parlare di sé stesso e in cui condensare ciò che è stata la sua vita finora. Non vuole mostrare il campo, non vuole fotografare i migranti e nemmeno uno spettacolare tramonto sul mare.

Un ragazzo di vent’anni iraniano ha scelto la stessa strada presa da me, anni fa, per parlare di me stesso, dei miei dolori e delle mie gioie.

Alla fine, forse siamo entrambi condizioni possibili dell’Universo. Sicuramente sono grato a M. per avermi dato la possibilità di essere parte della sua calma.

 

Andrea Luporini