CHORALE |Andrea Luporini WS

Ho scelto di dare alla mia esperienza a Samos il titolo di un brano del Banco del Mutuo Soccorso, grande band progressive italiana. Più che la fin troppo scontata accezione del termine “corale”, mi girava in testa il concetto di “mutuo soccorso”. Non so cosa io possa aver lasciato ai ragazzi con cui ho avuto a che fare ma so che quello che abbiamo fatto insieme ha arricchito di nuovi significati il mio lavoro. Ho cercato di dare qualcosa, di sicuro ho ricevuto molto, fuori da ogni retorica.

Ho voluto dare al mio workshop una dimensione frontale, faccia a faccia. Non una lezione ma un percorso di progettazione: attraverso il dialogo, abbiamo individuato delle necessità espressive e gli abbiamo dato forma in un’opera.

Ahmad, Rene Jean e Mohammad sono le tre persone con cui ho lavorato: tre ragazzi che hanno realizzato progetti molto diversi fra loro, con il dialogo e lo scambio reciproco di informazioni e competenze come unica costante.

Ahmad è un ragazzo kurdo. E’ un maestro di karate, a Samos fa volontariato nell’hotspot come interprete, tiene corsi di lingue e di arti marziali, si occupa dei bambini.

Mohammad è iraniano ed è molto riservato. Ascolta molto e parla poco, ma quando lo fa mostra una lucidità spietata che poco si addice ai suoi ventitré anni.

Rene Jean ha studiato arte in Camerun e web design a Cipro. E’ molto spirituale e fatalista, con un carisma che riempie visibilmente lo spazio intorno a lui.

Tutti e tre hanno iniziato a raccontarmi la propria storia e a fare domande sulla mia. In breve tempo è apparso chiaro di cosa volessero parlare, il mio ruolo principale è stato di accompagnarli nella ricerca del modo attraverso il quale esprimersi.


Ahmad ha dimostrato di essere il più “agguerrito”, ha parlato molto delle condizione del campo e ha espresso più volte la volontà di mostrare chiaramente i disagi, dalla mancanza di igiene in avanti. Durante i nostri incontri, ho cercato di proporre una via alternativa alla denuncia diretta, utilizzando il linguaggio dell’arte per parlare di un tema senza esprimerlo direttamente e evitare il pericolo che il messaggio potesse essere riconosciuto con troppa facilità e archiviato immediatamente dallo spettatore. Così, attraverso un video dal titolo Vathi Sporting Club, ha voluto rappresentare il dissidio fra ciò che è e ciò che gli viene concesso di fare a causa della sua condizione di migrante. Sull’asfalto di un parcheggio, ci propone i suoi movimenti così come li avrebbe eseguiti in una palestra di Sulymanyya, la sua città, lasciandosi gradualmente andare verso la frustrazione e l’errore. La location, il rumore dei suoi salti sull’asfalto, la progressiva perdita del controllo e le cadute contrapposte all’iniziale precisione sono servite ad Ahmad per lanciare il suo messaggio, in cui semplicemente chiede che gli venga data la possibilità di migliorarsi e di trasmettere agli altri il suo sapere come faceva fino a qualche mese prima nella sua terra natia.

Mohammad invece ha mostrato subito di essere molto preciso e rigoroso. In Iran studiava Informatica e Programmazione e ha le idee molto chiare: ha voglia di parlare di sé e della sua condizione ma non vuole in nessun modo mostrare il disagio, ha voglia di esprimersi utilizzando l’astrazione. Non è interessato alla denuncia, non vuole mostrare i migranti e le condizioni in cui vivono ma vuole fotografare la natura, quella piccola, fra ombra e luce. L’incontro con lui è stato molto particolare: già dalla nostra prima chiacchierata ho trovato una grande vicinanza, una persona mai vista prima che ha deciso di intraprendere la stessa strada intrapresa da me qualche anno fa, durante il mio primo anno di studi a Modena. La mia proposta in questo caso è stata di unire una fotografia scattata da me a quelle scattate da Mohammad durante il workshop tenuto da Wissam. Il risultato è un’immagine dal titolo A garden, eventually, un collage di fotografie che creano un luogo inesistente nella realtà ma che rappresenta una speranza di condivisione fra mondi diversi.

Ancora diverso è stato l’incontro con Rene Jean, da cui è nato un lavoro frutto dell’incontro fra artisti e dell’ispirazione reciproca che ne è scaturita.

Durante la prima riunione con i migranti, Rene era presente: non ha parlato, ma mi ha subito colpito la sua fisicità. Guardandolo, ho pensato a lui come primo soggetto di un progetto fotografico che avevo in mente di fare qui sull’isola, continuazione di un lavoro sul tema della migrazione iniziato insieme a due artiste italiane. Lo immaginavo in piedi, con una coperta legata al collo come un supereroe. Dopo la riunione viene a parlarci, ci dice di essere un artista, di aver studiato in una scuola d’arte italiana in Camerun e ci mostra i suoi lavori: tra questi, una scultura di un uomo, in piedi, con una coperta al collo. Come un supereroe. Gliene parlo, gli mostro il nostro lavoro, un tunnel realizzato utilizzando coperte, con la tecnica siriana del patch work. Il giorno dopo viene da me dicendo di aver pensato tutta la notte e mi chiede di poter realizzare dei dipinti ispirati a quel lavoro.

L’aspetto più importante di questa esperienza è stata la condivisione: persone diverse con cui ho avuto approcci diversi che hanno portato a lavori che hanno rispettato le individualità di ognuno, utilizzando il video, la fotografia e la pittura. Come ho scritto prima, non so cosa abbia lasciato a questi ragazzi, ma il lavoro compiuto con loro mi ha dato stimoli e materiale per continuare anche in Italia il percorso iniziato a Samos, portando con me il loro messaggio.

 

“Che importanza può avere il mio talento in una situazione come questa?”

 

“Voglio essere parte della bellezza di questo mondo e voglio regalarla agli altri”

 

“Esiste un solo mondo, non esistono i confini, soprattutto mentali. L’arte è condivisione”

Day 15_Coincidenze
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Day 8_Karate: what I used to be
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